Il memoriale di un folle raccontato da lui stesso. Cosa ha capito della vita a 80 anni?
Remo Rapino, docente di filosofia di Lanciano, paese in provincia di Chieti, protagonista e narratore del libro, ci racconta la storia di Bonfiglio Liborio, il pazzo del paese che vive la sua singolare follia, in un contesto storico difficile come quello dello spaccato 900.
Il libro si aggiudica il Premio Campiello nel 2020 e si candida anche al Premio Strega. Meritatamente.
Bonfiglio Liborio ha 80 anni, e inizia a raccontare la sua storia dalla nascita, è il periodo che intercorre tra il 1926 e il 2010. Lo fa in un modo tutto suo, con un linguaggio che è proprio della sua terra, e con il quale si entra subito in empatia.
Come in ogni paese che si rispetti e che tende ad etichettare, anche a lui avevano affibbiato un soprannome e lo chiamavano con aria canzonatoria “il Cocciamatte”.
Lui se ne va in giro per un Paese che non nomina mai, e ascolta durante il periodo della seconda guerra mondiale, prima l’esaltazione fascista, poi la sua denigrazione. Non comprende, non capisce, vive stupito ogni cosa di riflesso.
Il suo racconto è struggente, la sua ingenuità travolgente, e a leggerlo vien da chiedersi chi è davvero il matto in un contesto dove tutti lo scherniscono invece di dargli un aiutino, che so, una telefonata a casa, un 50 e 50, per dirla alla Gerry Scotti.
Nella sua cronologia di vita, egli vive ed interpreta la Resistenza o la caduta del muro di Berlino, punti cardini ed epocali della nostra storia, allo stesso modo di come vive le piccole gioie. Con la semplicità ed il suo filtro ingenuo capace di insegnarci il sapore dell’innocenza ma facendoci fare anche un mucchio di risate.
Per lui tutto è festa, gioco, motivo di socialità, anche quando gli altri continuano a vederlo come un problema, un soggetto da scartare, da tener lontano dai figli perché è un po' matto e non si sa mai...
Ma quanto se la tira questa società emancipata, e diciamolo!
Comunque, il bel temerario Liborio, negli anni del boom economico, si arma di coraggio e lascia sua madre e il suo paese, emigrando come altri del suo paese a Bologna, per lavorare nella Ducati di Borgo Panigale.
Lì tra un bullone e l’altro mentre continua a domandarsi chi mai possa usare una tale quantità di quei pezzetti strani, e costringerlo a fare tutte quelle ore di lavoro estenuanti, si mette nei guai perché picchia a sangue un povero tizio che gli aveva dato del matto!
Epilogo dell’episodio: licenziamento in tronco e spedizione diretta in manicomio.
Bonfiglio Liborio, nemmeno ci resta male, pensa che in ogni caso son stati buoni con lui, perché poteva andare peggio. Invece qui, in manicomio si trova bene, se non fosse che tutti urlano senza motivo, e deve stare attento a come parla.
Lui non si sente uno di loro, sogna una fidanzata e una possibilità diversa da quelli lì, nella sua vita, non vuole stare chiuso lì dentro. È convinto ce lo abbiano messo per una travisazione.
Liborio sta bene al suo paese, dove torna dopo esser stato dimesso, e finalmente tutti lo accettano (ma ci mancherebbe, sempre con riserva è sempre un matto), quando trovandosi con alcuni "amici", esprime il suo fermo giudizio riguardo alla guerra, affermando a piena voce davanti a tutti che “la guerra fa schifo!”.
Così iniziano a pensare che è matto, ma non più di tanto… e anche di questo lui è contento.
Il Cocciamatte, si esprime sempre per mezzo di un linguaggio striminzito, di chi ha fatto solo un paio d’anni di elementari e parla solo per oralità, per eco. Mezzo sgrammaticato e postumo solo degli insegnamenti del suo amato maestro Romeo Cianfarra, che nomina di continuo perché è stato l’unico che gli abbia impartito qualche lezione nella vita, e che gli abbia fatto conoscere l’amato libro Cuore.
Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, è un libro di facile lettura per me che sono di Frosinone e vicina di casa dell’Abruzzo, per forma dialettale, (anche se penso che il mio ciociaro sia davvero un dialetto incomprensibile anche per i miei vicini) ma immagino una difficoltà maggiore per un veneziano o un milanese, del quale dialetto io comprendo più o meno una parola su 10.
Personalmente il protagonista mi ha ricordato moltissimo Forrest Gump, un eroe combinaguai dal cuore ingenuo e nobile. Abbiamo visto tutti il suo film commovente e indimenticabile. Anch’egli nella vita, visse solo con la madre come Bonfiglio Liborio e fu coinvolto in mille disavventure distinguendosi sempre per la caratterialità ingenua e non artefatta che è invece propria degli istruiti.
La vita di Forrest Gump, ma anche di Gian Burrasca, o la mia, fine a un paio di settimane fa.
Il dolce Cocciamatte fu abbandonato dal padre non si capisce quando, e lui non lo aveva mai conosciuto. Un padre che sogna continuamente di rincontrare, in ogni temporalità che si sussegue nel libro, lo immagina, e si figura i suoi stessi occhi, come sua madre ha sempre continuato ad inventargli ogni giorno. Un padre a cui addossa la colpa di averlo reso matto perché lo ha privato dei suoi insegnamenti.
Un padre che sogna, che gli manca.
Lo sogna al punto che nel susseguirsi dei suoi ricordi lo immagina materializzarsi dietro la porta di casa sua, che suona il campanello. E gli si palesa la sua dualità, il Liborio che vorrebbe incontrarlo e quello che vorrebbe mandarlo a quel paese per non esserci mai stato.
Che poi a quel paese ci è andato da solo, gli dice la madre che fa da sempre in Argentina.
Così se lo trova davanti, e immaginato o no, l’istinto è quello di mandarlo via per non far soffrire sua madre, che sverrebbe nel trovarselo lì. Gli chiude la porta in faccia e poi se ne pente, ma non c’è già più.
Ma lui è Liborio il matto e trova sempre una scusa per tirarsi su, trova un altro ricordo al quale aggrapparsi per tirare avanti, anche se è vecchio e inizia a sentire sempre più vicina la morte che viene ad afferrarlo.
E’ vecchio e stanco e si mette a pensare determinato persino all’epitaffio da scalfire sulla sua tomba:
Qui riposa Bonfiglio Liborio nato nel 1926 morto il (ce lo mette il marmista)
Aveva gli occhi uguale a suo padre
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